Nel nuovo disco “Be Up A Hello” Squarepusher ritorna alle origini.
Recensione
di Alex “Amptek” Marenga
Tom Jenkinson è stato fra i protagonisti degli anni ’90, il decennio forse più creativo per la nuova popular music elettronica. La sua discografia ha inizio nel 1994 con l’e.p. “Stereotype” (Nothings Clear) ma esplode all’attenzione degli addetti ai lavori con il mitico album “Feed Me Weird Things” (1996) pubblicato dall’etichetta di Aphex Twin, la Rephlex Records.
Squarepusher si inserisce a gamba tesa nella scena “jungle” and “drum and Bass” del periodo, in piena esplosione, proponendone una formula molto più complessa e articolata che diverrà un vero e proprio genere autoctono il “drill’n’bass”.
Tom Jenkinson, insieme allo stesso Aphex, definiscono una nuova dimensione lessicale del concept ritmico timbrico del “drum ‘n bass” da un lato sganciandolo dallo stereotipo dell’amen break (il loop che sta alla base dei groove) dall’altro utilizzando campioni e rumori all’interno di nuovi schemi in continua variazione ritmica.
Al contrario di Aphex Twin che coniuga la frammentazione timbrico-ritmica del drill’n bass ai suoi sofisticati movimenti di basso e alle sue melodie microtonali, Squarepusher affiancherà all’idea della bassline acid un uso del basso elettrico post-fusion-funk, implementando sullo strumento elettrico le forme sviluppate sullo strumento elettronico e viceversa.
L’idea di trasferire le idee formali sviluppate dall’elettronica alla strumentazione tradizionale troverà il suo apice nel progetto Shobaleader One del 2010.
Ma veniamo alla storia recente, “Be Up A Hello” esce dopo “Damogen Furies” del 2015 e il secondo disco targato Shobaleader One ”Elektrac” del 2017.
Il primo è un episodio di transizione che sembra ammiccare a timbri e a soluzioni melodiche semplicistiche tipiche della dance più commerciale; per certi versi anfetaminico e scuro, ma decisamente sottotono rispetto ai lavori raffinitati proposti negli anni precedenti, resta deludente rispetto al precedente “Ufabulum”.
Il secondo è un episodio live dirompente in cui la band Shobaleader One si lascia andare ad arrangiamenti vertiginosi di brani nuovi e di classici di Squarepusher precedentemente eseguiti con le macchine.
“Be Up A Hello” quindicesimo album in studio per Warp Records ritrova identità e lucidità musicale, pur non riuscendo a travalicare il perimetro delle idee già proposte negli anni precedenti, si inoltra verso territori lo-fi che ammiccano al mondo 8 bit e sonorità analogiche prodotte riutilizzando l’equipaggiamento hardware impiegato nei primi anni 90.
Del resto fra gli strumenti utilizzati troviamo anche un mitologico Commodore Vic 20.
Non ritroviamo più quelle sinergie con il jazz o quegli inserti di basso elettrico che caratterizzavano i lavori storici, pare per un problema fisico, ma si mantiene in territorio “acido” elettronico che si ispira all’energia dell’era rave.
Vi sono alcuni pregevoli momenti ambientali come l’ottima “Detroit People Mover” in cui ri-eccheggiano timbriche carpenteriane impiegate su una costruzione orchestrale di stampo vangelisiano o la scura e opprimente “80 Ondula”, traccia rumoristica e atonale, scarna ma suggestiva.
C’è una focalizzazione sullo sviluppo delle linee ritmiche delle parti di basso elettronico a scapito dei movimenti della batteria come in “Vortrack”, uno dei brani usciti con un video, o come su “Oberlove”.
Brani come “Mekrev Bass” e “Terminal Bass” portano ad esasperazione la frammentazione timbrico-ritmica delle parti di basso e batteria, in momenti di scrittura complessa e articolata.
“Speedcrack” e “Neverlevers” sfruttano i suoni 8 bit e i campioni da video-game su timbri acidi grattugioni nervosi e graffianti di bassline e su ritmiche a tratti furiose ma tutto sommato lineari.
“Hitsonu” è un mancato soundtrack per una versione console da bar di Mario Bros.
Ci troviamo difronte a un lavoro in cui Squarepusher cerca di ritrovare un punto di riferimento, dopo produzioni concettuali incentrate su esperimenti collaborativi come su “Music for Robots” o nei concept multimediali di “Ufabulum” e la perdita di indirizzo di “Damogen Furies”.
Il suo lessico basato sulla frammentazione sonora e la ri-contestualizzazione ritmica dei samples con un paziente lavoro di editing creativo, riprende il suo percorso sfruttando macchine vintage e hardware, senza adagiarsi sulle semplificazioni del laptop per ritrovare la ruvidezza delle origini e, almeno in parte, una certa freschezza di idee.